Sfruttamento lavorativo, criminalità organizzata e attività di contrasto in Veneto
Il ruolo della criminalità organizzata nello sfruttamento lavorativo in agricoltura ha fatto nitidamente capolino in un solo caso negli ultimi anni: quello della cooperativa veronese New Labor gestita di fatto da Gaetano Pasetto assieme al commercialista crotonese Leonardo Villirillo, personaggio che a sua volta compare tra le carte dell’inchiesta Aemilia sulla ‘ndrangheta cutrese nel nord Italia, dove viene accreditato come un «personaggio in diretti rapporti con il boss Grande Aracri Nicolino» e soprattutto imputato nell’inchiesta Grimilde della magistratura antimafia di Bologna sulla cosca di ‘ndrangheta attiva nel piacentino.
La New Labor, così come la Geoservice, erano due cooperative di intermediazione di manodopera amministrate da Gaetano Pasetto che, tra il Veneto e la Toscana, fornivano squadre di braccianti per diverse aziende agricole veronesi non coinvolte nell’inchiesta. Gaetano Pasetto, secondo le carte dell’inchiesta il cui impianto è stato confermato dalla sentenza di condanna, era a capo di un “collaudato sistema di reclutamento utilizzo e assunzione di lavoratori di origine rumena la cui manodopera viene destinata al lavoro agricolo preso terzi in condizioni di sfruttamento approfittando del loro stato di bisogno” e utilizzando “minacciosi metodi di sorveglianza”.
Il metodo era semplice: i braccianti ricevevano 500 euro al mese “come acconto per le proprie spese e per pagare l’affitto alla cooperativa” e solo dopo sei mesi consecutivi di lavoro ricevevano mille euro e due settimane di ferie non retribuite per tornare in Romania o in Albania. I braccianti, inoltre, dovevano attendere un anno prima che Pasetto “concedesse”, sotto forma di conguaglio, il resto dei soldi. I lavoratori non vedevano le buste paga che comunque erano falsate. Ricevevano 4 o 5 euro all’ora per 11 o 12 ore quotidiane e solo a chi sottostava alle sue regole. In più pagavano 40 euro di affitto per la stanza messa a disposizione dalla cooperativa.
Villirillo, fino al suo arresto nel giugno dell’anno scorso, è stato molto attivo in Veneto come consulente di diverse società controllate da famiglie ritenute vicine ad ambienti criminali. Insomma un personaggio di un certo spessore che viene frequentemente contattato da Pasetto per risolvere i mille impicci burocratici che capitavano. Qualcosa di più di un consulente verrebbe da pensare leggendo le carte. Gli “impicci” che incombono sugli affari di Pasetto derivano anche dal fatto che la cooperativa dal 2016 non era in regola con i contributi per oltre 480mila euro pur avendo prodotto documenti falsi attestanti la regolarità fiscale e assicurativa alle varie ditte per cui lavorava.
“Il caporalato è considerato un reato spia della presenza di attività mafiose – scrive Marco Omizzolo, studioso e attivista dei diritti dei lavoratori agricoli – è infatti probabile che lì dove esso si manifesta vi siano organizzazioni criminali variamente intese, anche straniere, che agiscono con metodologie tipicamente mafiose”. In linea con l’opinione espressa da Omizzolo il dirigente della Dia del nordest, Carlo Pieroni, che sul tema ha posto un’attenzione particolare, tanto che nel paragrafo sul Veneto del rapporto del secondo semestre del 2018 vengono annotate come sintomi dell’attività mafiosa, assieme al traffico di rifiuti, “[al]le attività illegali che incidono sul settore dell’agricoltura, soprattutto quelle connesse allo sfruttamento di manodopera irregolare”.
Anche la Commissione parlamentare antimafia in missione in Veneto nel luglio del 2019 ha denunciato, per bocca del presidente Nicola Morra, l’attivismo delle mafie in Veneto – che si configurerebbero in questo caso come “network di servizi” – nell’intermediazione di manodopera e nello specifico nel bracciantato.
Ma il possibile ruolo della criminalità organizzata nella gestione della manodopera in agricoltura sembrerebbe, in Veneto, rimanere sfuggente anche se le inchieste che riguardano questo fenomeno sono in aumento. “Lo sfruttamento lavorativo in agricoltura non ha bisogno di criminalità organizzata – sottolinea Marco Paggi, avvocato padovano da anni impegnato su questo fronte – perché rientra nelle dinamiche dell’organizzazione del lavoro, qui c’è un sacco di fai da te”. L’analisi dell’avvocato Paggi è confortata dall’opinione di un responsabile degli organi di polizia deputati al contrasto del fenomeno che sottolinea la caratteristica “artigiana” dei soggetti che organizzano la manodopera in agricoltura.
Dal 2011, anno in cui è stato introdotto il reato di caporalato (art.603), al 2016, anno di riformulazione del testo di reato (art. 603bis) è cambiato molto: nella comparazione tra vecchio e nuovo testo, due elementi precedentemente decisivi per la sussistenza del reato vengono meno: in passato, era necessario che il reclutatore svolgesse “un’attività organizzata di intermediazione” e che questa avvenisse “mediante violenza, minaccia o intimidazione”. Quanto veniva dato per assunto nella conformazione del fenomeno di caporalato era, da un lato, la sua natura organizzativa – peculiari forme di coordinamento e di governo delle attività, norme condivise che ne regolano il funzionamento – dall’altro, il carattere violento e intimidatorio delle azioni e la condizione di soggezione che ne consegue: tutti elementi caratterizzanti il fenomeno mafioso.
Interessante notare come nella rappresentazione della criminalità organizzata venga in questo caso sottolineato l’aspetto organizzativo e cioè come, in qualche modo, venga percepito per il suo supposto carattere efficiente, professionale e in grande stile. Una questione che riguarda le percezioni e i significati attribuiti alla presenza mafiosa e alle forme che essa ha assunto in questo territorio frutto dell’elaborazione di un vero e proprio paradigma dell’alterità che attribuisce alle mafie caratteristiche univoche e in qualche modo stereotipate. In realtà, come le evidenze empiriche di questi anni hanno messo in luce, i business in cui le mafie in Veneto hanno avuto un ruolo sono stati spesso artigianali e hanno mostrato clamorosi limiti nella professionalità del soggetto mafioso nel condurre l’affare.
D’altronde la difficoltà nella rappresentazione del fenomeno riguarda anche le difficoltà in cui si è dibattuta la magistratura veneta in questi anni – come ha testimoniato la durissima critica della Commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura – di riconoscere sul piano giudiziario la provenienza mafiosa di alcuni gruppi criminali, nonché del ruolo giocato dalle agenzie di contrasto nella definizione del dibattito pubblico su un oggetto che appare sfuggente, vista la difficoltà applicativa del reato alle diversificate condizioni di sfruttamento presenti sul territorio.
Ma le difficoltà delle agenzie di contrasto non riguardano solo la riconoscibilità delle mafie, ma direttamente il nodo dello sfruttamento lavorativo: “in tre anni in procura a Venezia su 90 denunce ci sono 3 processi per 603 bis” ci raccontano gli ispettori del lavoro, e l’avvocato Paggi sottolinea amaramente come “questi fenomeni diffusi non hanno attenzione, i magistrati li snobbano, non fanno titolo sul giornale, le pene sono basse. Non c’è la mafia che fa titolo. Per un avvocato o per un magistrato sembra squalificante seguire i casi di questi poveracci”.
Dalla testimonianza di Marco Paggi, così come dallo scorrere dei diversi casi di cronaca, emerge come il fenomeno di sfruttamento lavorativo in agricoltura, ben definito come fattispecie di reato, rimanga in realtà indistinto nelle pratiche e nelle relazioni di chi vive questi territori. Non verrebbe, in qualche modo, definito come modalità moralmente riprovevole sia perché riguarda fasce marginali come i migranti che “comunque sia, hanno un lavoro” – e nonostante costituiscono più del 60 % dei lavoratori nell’agricoltura veneta – , sia per la difficoltà a concepire l’esistenza di conflittualità d’interessi tra lavoratore e datore di lavoro in una società per cui il lavoro ha rappresentato uno strumento di identificazione, di affermazione sociale e di costruzione comunitaria. Capita spesso, inoltre, che il caporale abbia la stessa provenienza dei braccianti sfruttati e che sia riconosciuto, in virtù delle sua attività di intermediazione, come figura di contatto tra i lavoratori stranieri e il contesto italiano: le pratiche di sfruttamento vengono trascurate, a favore della supposta attività di mediazione e di costruzione di legami di fiducia e alleanza con gli imprenditori agricoli.
In questo contesto è comprovato il ruolo delle organizzazioni criminali in Veneto nella fornitura di manodopera, anche se non direttamente connesso alla sfruttamento in agricoltura: l’abbiamo desunto dalle carte dell’inchiesta sul Veneto orientale che squadernano l’attivismo del gruppo capeggiato da Luciano Donadio nella fornitura di squadre di operai nei diversi cantieri edili del territorio o dall’inchiesta Porto Franco, della procura di Reggio Calabria, sulle cooperative che facevano capo alla cosca Pesce attive anche a Verona. Nel 2019 un’inchiesta della Guardia di Finanza di Soave nel veronese riguardante un imponente giro di fatture false che ha coinvolto personaggi legati alla criminalità organizzata calabrese ha portato alla luce l’attività di reclutamento di manodopera in nero da impiegare nel settore edile. O nell’attività della famiglia Giardino sempre nell’area scaligera o, riandando indietro negli anni, emerge da un’altra importante inchiesta giudiziaria intrapresa nell’alto trevigiano: Angelo Pittaresi, legato a Cosa Nostra, avviò una grossa attività di intermediazione di manodopera fiutando la richiesta da parte delle imprese di manodopera a intermittenza.
Una testimonianza inquietante l’ha offerta sei anni fa l’allora procuratore capo di Verona, Guido Papalia: «A Verona esiste un forte bisogno di manodopera che viene soddisfatto da organizzazioni criminali. Esse creano imprese e cooperative che lavorano in subappalto o forniscono lavoro nero».
E in agricoltura che cosa è successo in Veneto in questi anni? Lo racconta un lavoratore intervistato dieci anni fa per un’inchiesta condotta dalla Flai Cgil di Padova: “Pensa, gli viene domandato, che rispetto al passato ci sia stato un cambiamento nelle condizioni di lavoro in agricoltura? Totale, un cambiamento totale – risponde – perché io ho cominciato nel 1981 e la paga era più congrua, prima di tutto. Seconda cosa, i datori di lavoro avevano meno pretese. Una volta per raccogliere una cassetta di insalata ti ci volevano 5 minuti, per dire, adesso devi farla in due minuti. Ora è un lavoro oltre che un po’ faticoso di schiena, dove ti corrono dietro.. “fai presto altrimenti quella lì è la strada”. E dopo naturalmente ho capito anche un’altra cosa, ovvero che i datori di lavoro assumono sempre una terza persona, cioè, mettono un capo azienda..Usano un’intermediazione e, guarda caso, scelgono sempre un intermediario che fa gli affari suoi.. cioè che ti fa fare delle cose per farti lavorare di più o per spingerti sempre oltre”.
C’entrano le “mafie” in tutto questo? Probabile. In Veneto, in particolare nella province di Verona e Vicenza sono, in alcune enclave territoriali, insediate nel corpo vivo della società locale e, tradizionalmente, cercano di trarre vantaggio da situazioni di cattiva regolazione e di crisi. Si ritagliano il loro ruolo regolando a loro modo il mercato del lavoro oppure, come accertato da recenti inchieste anche in Veneto, presidiando gli snodi del commercio, come il trasporto e i mercati ortofrutticoli. Praticando azioni illegali che magari da domani, al variare della legislazione, illegali non saranno più. Ma quello che emerge dalle inchieste della magistratura non è tanto spia della presenza mafiosa, ma del riprodursi di un sistema che concepisce lo sfruttamento lavorativo come componente essenziale per la sua riproduzione. La rappresentazione del caporalato, come espressione della criminalità mafiosa lascia sullo sfondo le pratiche e le responsabilità di tanti che si tengono lontani dall’essere (definiti) mafiosi. Lì dove le condizioni di sfruttamento del lavoro agricolo vengono imputate all’azione di gruppi criminali permane una lunga lista di figure che, ciascuno nel proprio campo di azione, perpetua forme di ingiustizia sociale. Attraverso queste complicità si realizza una precisa modalità di organizzazione del lavoro, alla quale partecipano il piccolo proprietario terriero, le cooperative agricole (talvolta anche le cooperative incaricate dell’accoglienza dei migranti), le catene di supermercati, i responsabili delle piccole e grandi aziende di trasformazione e distribuzione dei prodotti e, infine, il singolo cittadino che, con i propri acquisti, legittima questa forma di produzione e sfruttamento.
*saggio presente nel Quinto Rapporto Agromafie e Caporalato a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil
Gianni Belloni
Antonella Rizzello
Foto via Flickr RadioAlfa